Gli amici li scegli,
i parenti no











Una storia/ricordo di Elena Bolledi - 2015

Pubblicato a puntate...

Mio cugino Giuseppe

Nella foto, da sinistra:
zia Lina del Ginetto con Chiara e Giuseppe, mia madre Bruna Bozzarelli ed io, zia Lina del Carletto con Vittorio.



Mia madre Bruna aveva cinque fra fratelli e sorelle: Carletto, Ginetto, Nives, Arrigo e Clementina (la Rina) che, sposatasi tardi, non ha avuto figli.

Da bambina non ho mai giocato con i miei cugini: Giuseppe, Chiara, Fausto e Vittorio abitavano a Borgotrebbia e Daniel, Sandra e Walter vivevano oltre l’Oceano e sono arrivati che ero già grande. Daniele della Nives è nato quando avevo tredici anni ed Alejandro quando ne avevo più di venti.

Mi sono sempre chiesta il perché di una così scarsa frequentazione del parentado da parte di mia madre. Certo, senza una macchina, a piedi, dal Belvedere, con carrozzina (per mia sorella) e due bambini da tenere per mano, non deve essere stato facile arrivare anche solo al “Tigrai”, dove abitava la nonna. Qualche volta ci siamo andati, a ”Tubruc”.

Ho nebulosi ricordi di un piccolo orto dietro le case “di Marchini”, di gattini da rincorrere, di crostate con la marmellata di susine. Chiara e Giuseppe erano bambini educati e riservati: non ricordo giochi vivaci con loro.



Dalla nonna correvo giù in cortile, al suono della trombetta del “Nacci”, per prendere le stringhe di liquirizia, arrotolate su confettini colorati, o per vedere i bambini del palazzo giocare alle biglie: i miei cugini non c’erano.

Le uniche foto che documentano incontri di noi sono queste: la prima con le tre cognate che mostrano orgogliose i figli e questa con me, a cinque anni, con Vito, Giuseppe e Chiara, nell’orto di zio Ginetto, fra l’insalata rigogliosa, tutti come in posa, con i vestitini della festa.

Trovarsi

La questione cugini era da considerare chiusa: ci saremmo incontrati per qualche felice o luttuoso evento familiare, occasione di baci e abbracci di cortese attenzione.

Nel “72, a diciannove anni, iniziai a frequentare la Cooperativa di Borgotrebbia, ritrovo al tempo di comunisti e artisti cittadini, complice il mio sogno di diventare artista e il ripudio di tutto ciò che odorasse di chiesa. Avevo la mia bici, ero autonoma insomma, e “Tubruc” non era più alla fine del mondo conosciuto.

E lì ho trovato il Boz.

Le nostre idee politiche non è propriamente che coincidessero: lui frequentava il Circolo Anarchico “Canzi” di Via Mazzini, io la FGCI, i compagni operai, le Feste dell’Unità.



La domenica mattina andavo a Borgotrebbia , passavo per le case a portare “l’Unità”, e quello era il posto più bello del mondo. Boz nicchiava e, ora lo so, sorrideva della mia ingenuità.

Ma la Cooperativa divenne il luogo di ritrovo di due cugini che si erano trovati e imparavano a conoscersi. Quando non dipingevo ero sempre lì: con Boz ci siamo fatte delle sane bevute, discussioni a non finire e pian piano iniziai, dall’alto del mio sentirmi giovane artista, a capire che non sapevo niente.

Avevo una cultura scolastica e libresca, limitata a ciò che avevo imparato, bene, ma limitata. Boz era una miniera di cose che io non sapevo o che, grosso modo, avevo solo odorato. Mi parlò dell’arte moderna prestandomi il suo volume dell’Argan che a me era sconosciuto. Aveva una predilezione per ESCHER e per i Dadaisti (da lui ho sentito parlare di Ubu e del Violon d’Ingres).

Solo quando ho visto i suoi disegni ho capito perché: c’era la sua stessa ricerca, ma soprattutto la sua stessa, ironica e studiata, visione del mondo.



Una sera di settembre del 1973, in Cooperativa, decidemmo di andare a Venezia, al Festival del Cinema. Partimmo a mezzanotte, con un suo amico, Italo, che nel frattempo si era aggregato. Mezzo di locomozione una vecchia cinquecento, non so se sua o dell’amico: quel che è certo è che oggi, visto il contenuto alcoolico dei nostri stomaci, ci avrebbero ritirato macchina e patente.

E’ stato il viaggio più allegro che io ricordi: cantavamo a squarciagola e Boz, ogni tanto, attaccava con il motivo di Mackie Messer, dall’Opera da Tre Soldi di Brecht, utilizzando un personalissimo ed esilarante grammelot che imitava la lingua tedesca, composto con le marche di tutti gli elettrodomestici e televisori tedeschi e le parole che si sentono a volte nei films con i nazisti.

Arrivati a Venezia erano le circa le tre, pioveva, neanche un cane, tutto chiuso. Avevamo bisogno di una toilette così ci siamo fiondati in un bar quasi chiuso: “Un bianco”. Ma lì non c’era toilette. Ne abbiamo passati più d’uno, di bar e di bianchi, ma niente toilette.

Non ricordo com’è finita. Alle sette di mattina abbiamo trovato un affittacamere molto economico e siamo andati a fare l’abbonamento per tre giorni di film. Venezia non l’ho vista molto, ma ho fatto il pieno di pellicole.



Boz, era particolarmente interessato ad un film del 1947, che probabilmente conosceva già : “Wozzeck il soldato”. Era un film tristissimo, di un soldato vessato dai suoi superiori, tradito dalla sua donna che, disperato, finisce per uccidere.

Figura tragica, che mi fece piangere. In seguito m’ informai su quella storia e scoprii che era tratta da un fatto di cronaca nera al quale l’autore del dramma s’era ispirato. E Boz mi disse che esisteva anche un’opera di Alban Berg basata su quel dramma.

Iniziai a farmi l’idea che avevamo una sorta di affinità elettive: Boz aveva già da tempo messo in moto il suo desiderio di conoscere ed ampliare la visione dell’arte e di comprendere in profondità ciò che vedeva, ed era un idealista, anche se cercava di smontare qualsiasi altarino si costruisse su ciò che sapeva.

Io ero ancora indietro, ma mi interessava tutto e, come lui, ero attenta a tutto ciò che mi girava intorno, solo meno critica e, forse, con qualche fetta di prosciutto sugli occhi.

Avevamo anche altre passioni in comune: la moto. Ma questo è un altro capitolo.

Segue...

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