Una gita nella Bassa











Di Adriano Corsi - 2015



Non sapevo dove stessimo correndo io e Boz quel mattino tardi di fine giugno a centotrenta chilometri all'ora sulla sua Gilera cinquecento, ma non mi importava, perché lo amavo e lui poteva portarmi dovunque.

A quella pazzesca velocità la moto vibrava, sferragliava e sputacchiava lasciandoci comunicare solo attraverso la pressione dei nostri corpi schiacciati uno contro l'altro, mentre le rare parole urlate “...cazzo.. fila eh?.. cosa?.. forte.. bene?” ci rassicuravano, interrompendo a tratti lo scambio silenzioso di emozioni.

Del resto tra noi due non erano mai servite molte parole per intenderci. Spesso era per gioco che ci palleggiavamo concetti, frasi, citazioni autentiche o storpiate, e per il piacere di sentire le nostre costruzioni verbali sfrigolanti scintille di nonsense e di esagerazioni.

Facevamo anche discorsi seri, ma il non detto era tanto, però quello era spazio privato, l'intimità su cui tra di noi era lecito solo prenderci un po' in giro, ma niente di più.



Tutto il resto era terreno comune di intesa e così quella mattina era bastato un “Vieni anche tu?” per sapere che non mi stava proponendo una gita in moto nella Bassa, ma questa volta voleva che lo accompagnassi là dove finora era andato da solo, voleva che fossi testimone anche della parte di vita tenuta pudicamente per sé da qualche mese.

E io ero felice di andare con lui e un po' eccitato che mi avesse scelto come compagno d'avventura, come se dovessimo incontrare la sua nuova fidanzata.

E in fondo per lui era proprio così: un nuovo amore che lo faceva sentire di nuovo una persona intera, viva e felice anche se per poco tempo, per poi gettarlo nella disperazione e solitudine più nera (e del resto non è questa sofferenza parte del discorso amoroso?).

Una passione a cui non era facile sottrarsi e che gli faceva fare di tutto per viverla ancora e ancora e lo obbligava a cercarla dovunque.



E noi due ora stavamo correndo verso il posto dell'appuntamento divorando con gran fracasso boschi, campi, case sparse, piccoli centri lungo la strada verso Guardamiglio.

Subito dopo Codogno, altri campi e case scorrevano veloci intorno a noi come in una moviola accelerata, mentre il nostro tempo interno passava lento, al ritmo dei nostri due cuori che pulsavano sincroni.

Io, aggrappato come un koala al suo giubbotto e tutto tremante per l'effetto frullatore della Gilera, gli ho urlato: “Ancora un po' così e mi saltano le otturazioni!”.

Lui si è girato di profilo e ha sorriso appena. “Guarda, potremmo essere dovunque in Europa. E' tutto uguale” mi ha detto, indicandomi con un cenno il paesaggio monotono dei campi coltivati a riquadri ben ordinati, dei pioppeti dell'argine incolonnati in prospettive vertiginose, delle piccole fattorie e dei capannoni “seminati a spaglio” a destra e a sinistra.



Sapevo a cosa stava pensando. Non era il paesaggio ad interessarlo. Vedevo l'indurirsi dei muscoli della mascella, conoscevo i suoi discorsi cinici (sulla vacuità dell'esistenza, sulla inevitabile entropia dei sistemi, sulla decomposizione), ho sentito cosa gli passava per la testa.

“E' solo letteratura Boz!” ho gridato, “lascia perdere Cioran, lui alle signore di Parigi raccontava barzellette!” e l’ho stretto forte per fargli sentire il mio amore e la mia pietà per lui, per le sue scelte, che non erano le mie, per tentare di vivere in mezzo a tutta questa tragedia.

Stavamo correndo verso Casale, sapevo che il posto era da quelle parti, in quella zona grigia della Bassa dove assieme ai rancori operaisti, più o meno inclini ad usare anche le armi, covavano risentimenti più antichi: lì c'era sempre stata la povertà, la fame, l'esclusione sociale, la rabbia e traffici di ogni tipo.

Sì, lo sapevo che anche la droga che Boz usava veniva da lì, e sapevo che non era l'erba o l'acido che passavano nelle vallate piacentine. Da lì veniva l'eroina e noi stavamo andando a comprarne un po'.



Ce l'aveva detto lui una sera che era tornato presto dalla città. Si era fatto di ero e coca assieme in vena.

“Mi sento come su un treno in corsa”, ci aveva detto eccitato e felice per la prima volta dopo tanto tempo e con quel senso di pienezza degli innamorati.

Non ricordo se c'era anche Silvio quella sera. Del resto lui è sempre stato una figura nello sfondo in quei mesi vissuti assieme noi quattro maschietti (sarà per questo che quando se ne è andato si è preso un po' di cose da tutti noi? Per farsi ricordare?).

Però Gigi c'era e né io né lui eravamo contenti, anche se Boz sembrava vivo e spumeggiante come non mai, perché aveva superato un limite: solo i tossici si facevano di roba pesante.

Tra i “politici” qualcuno aveva provato a fumarsi un po' di ero o a tirare della coca, ma erano solo incursioni, esperimenti, non abitudini consolidate.



Erano finite la caccia alle streghe e le spedizioni punitive degli anni precedenti, c'era molta tolleranza reciproca, rispetto e qualche obiettivo comune, ma nessuno aveva la consapevolezza di quello che stava accadendo davvero ad un'intera generazione.

Di morti ce ne erano stati, ma solo per overdose e non perché ci fosse qualche veleno nella roba pesante, a parte quella tagliata male.

La delusione della soluzione politica mancata aveva generato sbandamento, depressione generalizzata ma anche il desiderio di coltivare l'utopia della libertà totale, di partecipare alla festa del capitalismo maturo consumandone tutti i frutti, anche quelli più ambigui.

E ora, filando a centotrenta, incollati l'uno a all'altro, i volti tirati, gli occhi lacrimanti, capelli e sciarpe al vento, rintronati dal motore modificato della Gilera, potevamo sentirci Dennis Hooper e Peter Fonda, ma la Bassa non era l'America (nessuno ci avrebbe sparato) e noi non stavamo scappando dalla civiltà, andavamo per compere.



Superato Casale, dopo un po' aveva rallentato e preso una deviazione sulla sinistra.

“Ci siamo quasi”, mi ha urlato a mezza bocca e, dopo ancora qualche chilometro di paesaggio monotono, ci siamo fermati a poca distanza da un piccolo gruppo di case-scatoloni grigi e bassi, con una stalla, qualche ricovero per animali e un fienile, tutti edifici tirati su alla meglio negli anni '50, a poca distanza dal Po, ai bordi dei soliti interminabili pioppeti sabbiosi.

A parte un cane attaccato ad una lunga catena che ha cominciato ad abbaiare per dovere, ma che non ne aveva nessuna voglia (e lo si capiva dal fatto che scodinzolava muovendosi come poteva a destra e a sinistra), nel cortile non c'è nessuno. Di altri animali non se ne vedevano, di attrezzi nemmeno. Però c’erano due auto parcheggiate più avanti, a destra del fienile vuoto. Sembrava una fattoria in disarmo.

Ho visto Boz dirigersi sicuro verso la porta, ma non sono entrato. Mentre la apriva, ho avuto il tempo di vedere all'interno: una stanza grande con le pareti spoglie e sul fondo un tavolo con due quarantenni tarchiati e cattivi girati verso la porta, uno seduto e uno in piedi che hanno distolto per un attimo lo sguardo dal tavolo ingombro di varie cose indecifrabili nella penombra della stanza per darci un occhiata pietosa.



Era un posto che avevo già visto in qualche squallida periferia del mondo dove ero capitato per idiozia o per stupidità, con gli stessi personaggi loschi che trafficavano in valuta, alcool e droga.

“Aspetto qui fuori”, ho detto rivolto a quella penombra equivoca e, mentre lui entrava nella stanza, io uscivo e chiudevo la porta alle mie spalle.

Mi sono acceso una sigaretta per calmare il nodo allo stomaco: c'era qualcosa che non andava in tutto questo, lo sapevo e non mi piaceva.

Lui è uscito quasi subito e senza una parola è andato verso il boschetto di giovani pioppi. L’ho seguito e l’ho visto cercare qualcosa a terra tra la sabbia polverosa disseminata di rifiuti.

Con un bastone ha rigirato cartacce, plastiche, cicche di sigarette fino ad individuare un pezzetto di stagnola che ha raccolto, ci ha soffiato sopra, si è seduto ed ha estratto due o tre cose dal giubbotto.

Sicuramente c'erano la siringa, i fiammiferi, la roba, ma io ormai non vedevo più nulla. Guardavo ma non volevo vedere, non volevo ricordare e ho cancellato, cancellato all’istante e per sempre.

Ma sapevo.



Sapevo che in quella carta raccolta da terra - No! non così, ti prego! E’ sporca, è pericolosa - in quei gesti banali e meticolosi (prendere l'accendino, scaldare brevemente la coppetta di stagnola, aspirare il contenuto in una siringa e infilarla in un braccio) c’era l’enormità di un atto di indifferenza verso di sé e verso la vita.

Il “buco” l’avevo già visto decine di volte con altre persone e al massimo mi provocava disagio o irritazione. Ma era proprio questa indifferenza verso se stesso che mi faceva male.

“Ma sì, tanto è uguale”, l'avrà ripetuto centinaia di volte.

Quindi era così che succedeva: la roba ti prendeva a tal punto che potevi trascurare le precauzioni più elementari. Sbiadivano i confini tra bene e male, giusto e ingiusto, innocuo e nocivo.

E io ero lì, testimone di questa indifferenza tra la decisione di vivere e quella di morire, come fosse una decisione irrilevante.



“Cazzo Boz, quella roba è sporca e tu te la mandi in vena? Boz, che cazzo fai? Così ti fai del male, ti può venire un'epatite, tu non sei come Cocis che per una dose si è venduto i materassi di sua madre o come il Blizino che è venuto a rubare in casa mia solo perché era facile.

Boz tu sei diverso, hai del talento e una bella testa, non sei come loro, e poi, chi sono questi figuri che ti vendono la roba? Che cosa c'entri tu con loro?”

Ma non glielo ho detto per rispetto delle sue scelte, per non interferire, perché non avevo il diritto e sì, forse il suo era un errore, ma chi ero io per stabilire che una cosa era giusta e l'altra sbagliata, innocua o pericolosa, dov'era il confine e fino a che punto ci si poteva spingere?

Non gli ho detto nulla, mi sono allontanato da lui per avvicinarmi alla moto ancora tiepida e ho finto di trafficare con l'alimentatore.

Dopo qualche minuto mi ha raggiunto.

“Andiamo?”.

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